> R.A.M. Giovani artisti di Ravenna e Provincia

14 aprile - 6 maggio 2007

Urban Center, Ravenna


PRESENTAZIONE


 

Avere un villaggio nel CUORE: problemi inerenti allo spazio
e alla sua rappresentazione
di Elettra Stamboulis

 

Chi è del Villaggio a Ravenna si riconosce: non si sente della città vera e propria, è uno del Villaggio ANIC. Esso ha ora cambiato nome, non volendo essere da meno di Leningrado che è diventata San Pietroburgo, anche il Villaggio ha optato per un’identità che ricorre all’annuario sacro, ovvero San Giuseppe, un santo falegname e vicino agli operai. Essi costituiscono il tessuto sostanziale di questa enclave urbana in un’aria veramente prossima a quella industriale e artigianale.
Il Villaggio nasce a partire dal ’58, dopo gli accordi tra Enrico Mattei e il Comune di Ravenna. Per l’edificazione del quartiere viene contattato, in un primo momento, lo studio Vito e Gustavo Latis di Milano che elabora nel 1958 un ampio progetto, detto il Piano Unitario, conservato presso l’Archivio dell’ufficio tecnico del Comune, che prevede un’estensione del Villaggio su 90 ettari e la costruzione di 3092 alloggi suddivisi in 7 diverse tipologie abitative, otto asili, due scuole elementari, una scuola media, un ambulatorio, otto mercati-cooperative, due centrali termiche, tre auto rimesse, una zona sportiva provvista di un campo sportivo, un campo da pallacanestro, una piscina, quattro campi da tennis ed una zona centrale composta da un teatro, un grande magazzino, un centro sociale pensato come sala riunioni, sala feste e cinema, un complesso parrocchiale, formato dalla chiesa con il battistero e la canonica ed infine un «palazzo civico». Il tutto immerso nel verde e dislocato su strade sinuose secondo il modello delle città-giardino, piuttosto che quello del castrum romano.
È ovvio per chi passeggia in questo quartiere che tale progetto non fu portato a termine: la misteriosa morte di Mattei segnò la battuta d’arresto di questa politica, e il villaggio rimase un’area satellite e non collegata al resto della città.
Chi è cresciuto in questo spazio ha sperimentato quindi una particolare modalità di vita sociale: un’esperienza comunitaria per certi versi simile alle modalità del vero villaggio, distaccata dalla città vera e propria, che viene scoperta solo nell’adolescenza.


Giuseppe Maestri e Gaetano Giangrandi, Archivio Galleria la Bottega - Ravenna
Giuseppe Maestri e Gaetano Giangrandi, Archivio Galleria la Bottega - Ravenna

Il quartiere ora è mutato e sta variando ulteriormente: è una delle aree maggiormente interessate dal nuovo PRG e un complesso progetto (il patto di quartiere pertinente) lo interessa. Sta mutando il tipo di architettura, tutta orientata ai colori pastello e al giallo paglierino, agli insediamenti urbani semindipendenti che segnano uno scarto sociale importante nel tessuto urbano. Vi sarà addirittura un edificio alberghiero: sicuramente una delle presenze più inaspettate per un’area così limitrofa ai fumi dell’area petrolchimica. Segno che i tempi cambiano, i luoghi e le persone anche.
Per la prima volta anche RAM, il concorso per giovani artisti del Comune di Ravenna gestito da associazione Mirada, opta per una versione tematica e per un progetto specifico per gli artisti selezionati. Si tratta ovviamente di una scommessa irta di pericoli: se ci si attiene esclusivamente ai lavori presentati alla commissione giudicatrice di una selezione artistica, è ovvio che il rischio intrinseco è notevolmente inferiore. Si sa che cosa si va ad esporre. Proporre invece un tema, e soprattutto un tema urbano ex post, è un azzardo pieno di pericoli. La formula pensata per questo tipo di progetto, cioè l’affiancamento agli artisti di curatori artistici che ne hanno seguito il lavoro e aiutato il dispiegarsi nel tempo, è stata sicuramente una boa, ma non esclude i rischi di cui parlavo prima.
Il tema dello spazio, dei mutamenti urbani, del rapporto tra identità dei luoghi e sua rappresentazione, è sicuramente uno dei leit motiv del lavoro curatoriale e artistico degli ultimi anni, non solo in Italia. L’arte si interroga sullo spazio che la ospita, superando i muri angusti delle gallerie, dei musei, degli spazi appositi e protetti, per uscire e interrogarsi su quello che vede fuori. Soprattutto fuori dai centri storici, che segnano un’identità artistica meravigliosa dell’Italia, ma purtroppo destinata ad essere un’identità del passato. Questi luoghi in mutamento dove siamo destinati a vivere sono invece il nostro presente e ne costituiranno per i posteri il segno del nostro passaggio. Tale aspetto era presente ad esempio anche in uno dei progetti di No Border degli anni passati, in cui dalla ricerca degli artisti coinvolti emergeva proprio l’assoluto prevalere dell’interesse per le aree industriali, residenziali e meno marcatamente “belle” della nostra città.
In questo interesse non va ovviamente identificato un voyeurismo per un’estetica influenzata dal cyberpunk e dal post industriale, ma più semplicemente uno sguardo per quello che è il nostro presente e soprattutto sta diventando il nostro futuro.
Un tempo agli artisti veniva chiesto anche di disegnare le città. Essi intervenivano in modo molto intenso e invasivo nella definizione del tessuto urbano monumentale e dei luoghi simbolici. Questo avviene ora sempre più limitatamente, e quando avviene l’intervento non è strutturale, ma riempitivo. Pensiamo ad esempio ai gorilla del Tribunale: essi riempiono uno spazio, non ne costituiscono il cardine e l’estetica. Ad essi è rimasta una vocazione di un sguardo profetico ed interpretativo. Che cos’è la profezia, se non un leggere i segni e dare loro una grammatica? Spero solo che siano dei Tiresia, e non delle Cassandre. Il loro essere esposti in un luogo che si pone al momento come funzione l’informazione e la diffusione di una interpretazione urbana è anch’esso significativo in questa ottica. Essi non sono depositari, autori, coautori, del progetto che viene promosso e presentato. Semplicemente lo guardano, e utilizzando i propri strumenti ne danno una grammatica che ovviamente obbedisce a logiche diverse da quelle proprie dell’architettura e dell’urbanistica, ma anche della sociologia.
È uno sguardo del cuore. Perché come diceva Ernesto De Martino, “chi non ha un villaggio nel cuore, non può dirsi cosmopolita”.