> R.A.M. Giovani artisti di Ravenna e Provincia

15 - 30 marzo 2003

Santa Maria delle Croci, Ravenna


Loretta Zaganelli | Fotografia


"Guarda che disastro". E' una frase che (quasi) tutti abbiamo pronunciato in occasione di un piccolo evento quotidiano come quello di far cadere qualcosa di fragile che finisce in mille pezzi. E non sia mai un recipiente contenente sale, poiché in questo caso il disastro si accompagna al presagio infausto. Premetto subito, a scanso di equivoci e per la pace di chi osserva, che queste foto di Loretta Zaganelli raccontano la rottura di una zuccheriera e lo zucchero è un prodotto troppo recente (e industriale) per la iella, che è cosa antica e nata nella civiltà contadina.

L'arte visiva contemporanea - quale che sia la tecnica - ha questo di vantaggio: mette in moto meccanismi mentali concatenanti per i quali il "minimo" deflagra nel "massimo". Come aveva capito Duchamp, ogni cosa cambia qualora sia esposta. E i titoli aiutano. Per cui questi scatti di "banale" quotidianità, una volta esposti, rimandano per esempio ai "Disastri della guerra" di Goya o a "Guernica" di Picasso. Sorridendone a posteriori... ma è la libera associazione di idee che, come insegnava padre Freud, insorge inconsciamente. Per la stessa ragione, nei sistemi totalitari, i mass media evitano di dare spazio a delitti o ad incidenti: infatti c'è il rischio che vengano letti come "il peggio che verrà".

L'arte (spesso) funziona secondo il detto del vecchio Gorgia: "chi inganna è più onesto di chi non inganna e chi è ingannato è più saggio di chi non è ingannato". L'arte inganna i sensi, ma libera la mente. Almeno si spera...

Si è detto del "banale". In un normale dizionario si potrà leggere: "qualità propria delle cose comuni, di nessuna importanza". E tuttavia se si consulta un dizionario etimologico si vedrà: "banale dal francese banal, a sua volta derivato da ban, proclama del signore feudale, che risale al franco ban, bando, segnale (da cui l'italiano bado)". Nel bando il detto feudatario stabiliva che i suoi sottoposti usassero solo ed esclusivamente cose di sua proprietà come mulini, frantoi, forni ecc., alle condizioni da lui fissate. Che fossero cose comuni a quei tempi, passi; ma non certo di "nessuna importanza".

L'arte moderna, in linea di massima, aborriva le cose comuni, i detti comuni e il senso comune. Comune da cum e munus: che svolge il proprio compito "insieme con altri". Individualismo esasperato? Oppure valeva il detto di Breton: bisogna tenere il pubblico fuori dalla porta? Egli fu, nel tempo, comunista, trotzkista e anarchico. Siccome ai tempi in cui scriveva, i "proletari" non frequentavano le mostre, evidentemente voleva tener fuori dalla porta l'odiata borghesia. In ogni caso il "comune" era osteggiato non solo da chi era "reazionario" in politica, come a titolo diverso, Marinetti, De Chirico, Kandinskij, ma anche da comunisti, come gran parte dei surrealisti.

Oggi, nella tarda modernità (la si chiami come si vuole, postmodernità, surmodernità, new age, ecc.) il "comune" è di gran moda proprio nel momento in cui ha fine un certo comunismo. Alla sovietica, per intenderci. La legge del contrappasso?

Il "comune" che si coniuga con l'ironia? Come in queste fotografie di Loretta Zaganelli. Altro paradosso dal momento che l'ironia gioca sempre contro. Come sostiene Derrida, siamo approdati ad una logica dell'aporia? Il ragionamento logico conduce a conclusioni se non opposte quanto meno contrastanti? In ogni caso, non più "insanabili"? E' finita l'epoca delle "contradizzioni"? Di quelle perlomeno che esplodono? Come le bombe su Baghdad?

Il Novecento ci ha raccontato delle frottole. Ah beh, se lo afferma un cantautore, lo riportano tutti i giornali: intere pagine nelle rubriche dello spettacolo (il mio alter ego mi suggerisce cautela: non è tempo di elitarismi). Avrebbe dovuto dire se mai: ci siamo raccontati frottole. Le opere d'arte del Novecento erano frottole? Ma sì, distruggiamo pure i musei. Dopo tutto era un'idea di Marinetti. Non voleva distruggere anche Venezia? Stia tranquillo nell'empireo: ci stanno riuscendo benissimo i "grandi capitani" d'industria.

Lasciamo dunque in pace i musei del novecento come dei secoli precedenti. Luoghi di immortalità presunta. Si potrebbe anche considerare alla maniera di Bruce Chatwin: "Le cose sono meno fragili delle persone. Le cose sono lo specchio in cui osserviamo la nostra disgregazione. Nulla ci invecchia più di una collezione di opere d'arte". In ogni caso, nessun pentimento: cosa fatta capo ha.

Se mai dell'arte del XXI secolo dovremmo parlare: avete notato che i giornali non ne scrivono più? Negli anni sessanta si diceva che la fotografia doveva essere soltanto documentaria. Rigorosamente in bianco e nero, ascetica, austera, al servizio dell'oggetto: performance, ready made, arte povera che fosse. Nuda e cruda. Poiché l'arte veniva prima di lei (si vedano le foto del volume "ArtePovera" di Celant). Ora la fotografia viene vestita, a colori e contrappesi, con l'illuminazione e l'inquadratura dovute, ecc. Essa è diventata l'opera, non c'è più arte prima di lei.

Credo ancora nella fotografia documentaria (non solo in quella ovviamente, pure essendo stata privilegiata a Kassel), se deve testimoniare i disastri del mondo postcoloniale, i bambini che muoiono di fame, ecc. E non si dica che è un discorso fuori tema... stiamo infatti discorrendo di disastri, appunto.

Loretta Zaganelli sa perfettamente che l'arte, in occidente, spesso, si vela e occulta. Qui da noi, non c'è più niente da testimoniare. Anche il recycling di "blob" si rivolge solo al sorriso e l'ironia raramente tiene conto della pietas. E' importante che l'artista mostri i meccanismi mentali che presiedono al suo operare, come fa Loretta Zaganelli. Che cerchi di smuovere l'intelligenza. Nella complessità dell'occidente diventa difficile anche la fuga. Nella catatonia generale mi sembra già tanto evocare disastri. Disastri che, temo, fra non molto la televisione ci nasconderà.

 

Ravenna 20.02.2003
di Giulio Guberti