Il velo di Maya di Elettra Stamboulis


Satrapi è prima di tutto un’autrice di fumetti. Per noi, almeno: prima di essere iraniana, francese, cittadina del mondo, testimone scomoda di una storia scomoda. Quello che ci ha affascinato del suo lavoro è prima di tutto il suo segno. Denso, xilografico, che ricorda una certa grafica fine anni sessanta.

Poi il suo lavoro autobiografico si è intersecato ad altre ricerche che in altri ambiti avevamo incrociato: ad esempio il lavoro in rete Bio.Graphic di UBQ. Sono sempre le intersezioni a dare adito a un progetto, a farci innamorare di un’idea.

La forza dell’autobiografia d’altronde sta nell’essere un segnale immanente di realtà. Il raccontare il proprio vissuto costringe il lettore al “credere” alla veridicità, anche se questa è segnata dal forte punto di vista del narratore in prima persona.

Giulio Cesare aveva ovviato a questa sguardo troppo soggettivo raccontandosi in terza persona: Satrapi non solo narra in prima persona, ma si disegna, nel suo modo eccessivamente autocritico, mettendo a nudo la sua fisicità e la personalissima proiezione di se stessa su carta. Il mondo, d’altro canto, è come noi ci rappresentiamo.

L’effetto della lettura di questo fumetto non è solo didascalico e legato alla particolare vicenda che l’autrice narra: particolare per modo di dire, visto che l’esperienza dell’esilio o del vivere in una società sottoposta a profondi cambiamenti, non è poi così rara. D’altra parte Satrapi ha una storia urgente da raccontare: nella sua urgenza, rimane unica ed irripetibile, ma allo stesso tempo evoca altre storie e potrebbe essere la nostra storia. Il procedimento empatico è piuttosto naturale.

La lettura, cosa che ho sperimentato direttamente attraverso gli occhi di mia figlia dodicenne, anche estrapolata dal contesto storico in cui le vicende si svolgono, ottiene un risultato molto forte di identificazione e fascinazione, in particolare per le bambine che si trovano in quella particolare età di transizione che alcuni chiamano pre-adolescenza. Quell’età così ambigua da non avere nome proprio, in cui non si è né carne né pesce. Ci si ritrova a guardare con particolare attenzione alla propria crescita: un’attenzione che si concentra anche sul proprio recente passato, sull’essere state bambine. “Come è stato che sono arrivata fino a qui? E dove sto andando?” ci si chiede desolate, guardando una stanza ancora piena di bambole ormai senza vita.

Persepolis, oltre a aprirci varchi inaspettati sullo sguardo del femminile nel mondo forzosamente islamizzato dell’Iran contemporaneo, è un viaggio iniziatico di una bambina che diventa adulta. Come tale, ha la stessa forza dei viaggi simbolici del rito di passaggio all’età adulta sedimentati nei racconti fiabeschi.

Come fumetto, esso acquisisce un notevole spessore interpretativo: la categoria del tempo prevale su quella di spazio (le tavole sono sintetiche e i particolari di ambientazione limitati). Questo potrebbe essere banale, ma ci sono moltissimi modi per snocciolare la propria vita. Marjane sceglie di partire da un punto preciso, non la nascita, ma il velo a scuola. Da questo preciso momento si dipana la narrazione che segue un movimento temporale lineare: il fenomeno da cui la storia ha inizio ha dato anche lo spunto al titolo di questa mostra. Potrà sembrare esagerato tirare in ballo assonanze filosofiche con Schopenauer (sicuramente è esagerato), ma il gioco di parole è venuto naturale. Il velo di Marjane ha lo stesso scarto gnoseologico del velo di Maya, l’immagine ripresa dalla filosofia indiana dal filosofo di Danzica: la realtà delle cose si cela dietro di esso, quello che noi percepiamo non è altro che illusione ed apparenza. Il fenomeno velo reale per le donne nasconde, dietro la sua esistenza tangibile ed indiscutibile, una percezione più complessa, non facilmente chiarificabile dalle categorie manichee di bene e male. Non solo Satrapi, con l’ironia che caratterizza tutta la sua opera, ma anche altre donne, provenienti dal mondo islamico, ci hanno messo in guardia dalle facili e comode interpretazioni dei “fenomeni”, delle apparenze e delle attribuzioni di senso a forme esteriori: una sociologa che usa l’arma dell’interpretazione ironica per leggere il suo e il nostro mondo è Fatema Mernissi che, quando si chiede ne L'harem e l’Occidente, qual è il corrispettivo dell’harem nel mondo occidentale, in quale anfratto lo nascondono, risponde, lei sociologa, con una storiella da cui desume il responso: l’harem dell’occidente è la taglia 42. Personalmente ho trovato illuminante questa semplice frase, illuminante soprattutto perché prima mi veniva fornito in modo dettagliato e sostanziale il bagaglio necessario per comprendere il valore dell’harem e che cosa sottintende l’utilizzo di questo termine per una cultura altra. In questo senso, l’occhio smaliziato altrui, mi ha permesso una maggiore comprensione di me e del mio mondo. Anche Marjane, quando racconta dalla propria angolazione la sua visione dell’Austria e degli anni vissuti in Europa, raggiunge il medesimo risultato: la sua visione del mondo europeo, diviene per il lettore europeo un disvelamento del proprio mondo, letto con occhi altrui. Si conosce tramite metafore, per assonanze, ma soprattutto per differenze.

Quando si parla di Marjane Satrapi si fa sempre leva sulle differenze: donna (e già siamo nell’altra metà del cielo), iraniana (attraversiamo la nuova cortina di ferro), fumettista (gente strana, che fa cose poco serie). Se la differenza diviene uno strumento per la conoscenza, allora sono d’accordo con porre l’accento su queste definizioni. Altrimenti preferisco l’indeclinabile e universale, artista.  



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