Il senso dell’altrove di Antonio Faeti


1. Sull’importanza del segno, nel fumetto, sembra a volte di aver detto proprio tutto, tanto è rilevante, ineliminabile, preliminare ogni considerazione espressa a proposito di questa essenziale componente dell’universo dei comics. Poi, però, quando ci si trova di fronte a un ampio testo fumettistico, un grande e nuovo esempio di narrativa autentica interamente basata sui balloons, allora ci si accorge di dover rimeditare, di essere indotti a ripensare, a fare confronti, a rivedere il senso di un percorso storico.

Perché il segno di Marjane Satrapi può anche ingannare un occhio distratto che non sappia collocarlo nella sua variegata genealogia. Sembra, a una prima occhiata, un segno intenzionalmente semplice, riassuntivo, orientato a spremere tutte le risorse che una ricerca essenzialmente stilistica da sempre porge ai cartoonist. Poi si scopre subito che questo è un segno di derivazione pittorica, vicino alle xilografie di Frans Masereel, però devoto anche alla perentoria chiarezza di Chester Gould. Un segno, insomma, che riempie di ombre insinuanti l’intera pagina, che sa rendere l’incubo della città, che tratteggia viali dedotti da un onirismo che ripensa e ritrova le più profonde connotazioni del surrealismo. Così ogni esame fondato sull’esperienza naïf deve scomparire, e Persepolis diventa il frutto di un segno colto, allusivo, inquietante, un segno che conosce gli inchiostri misteriosi del Kafka disegnatore, ma, in certe raffigurazioni di scale, in certe scene di massa, quando deve rendere il tormento del traffico o l’alienazione giovanile, può alludere addirittura al liberty e valersi di una molteplice tradizione novecentesca in cui le periferie di Sironi si accostano al Morandi incisore e ripercorrono le smorfie tanatologiche di Otto Dix. Un segno, dunque, capace di coprire con l’evidenza ingannevole della propria semplicità, un vasto apparato di riferimenti.


2. La bambina che, in Iran, vive il trapasso da una dittatura, tutta interna agli ultimi latrati dell’antico colonialismo di rapina, all’integralismo fanatico di chi usa la religione per opprimere e per torturare, deve poter ritrovare archetipi sofferti e maledetti, deve ricondursi agli incubi di una Storia che contiene tante stragi, tanti arrivi non graditi, tanti catechismi imposti con la tortura.

Si deve riconoscere che Marji ha paradossalmente fruito di uno sconcertante privilegio: era già ribelle, da subito, mentre lo Scià non comprendeva l’abomino del suo agonico potere, e, naturalmente, è lieta che ci sia il cambiamento, si apre doverosamente alla speranza. Vive, insomma, un transito frenetico da un regime a un altro, ma può subito condannare anche il secondo, perfino più turpe del precedente, perché negatore di una vera speranza, assassino di sogni legittimi. Non è un caso che si possa definire kafkiano l’occulto tormento che spegne le speranze: certo, qui siamo in Iran, ma siamo, ad un tempo, nel mare bituminoso di ogni integralismo, ovvero siamo a Salem, siamo nei borghi calvinisti dove si segnavano le adultere con una A scarlatta, siamo in una cittadina laziale dove il tiranno è un gesuita controriformista, siamo nella Russia di Gogol, sempre la stessa, con i comunisti o con i cosacchi dello Zar: un lavavetri è posto a capo di un ospedale perché il concime di ogni integralismo è sempre l’imbecillità.


3. E arriva, poi, anche la guerra. È stata, per noi, una guerra televisiva, conficcata nelle morbide estati dell’edonismo reaganiano, intervallate della “schiava Isaura” e altre novelas, da anime giapponesi, da “quelli della notte”, da tante storie di spiaggia, da Miss Italia, San Remo, l’Oba Oba venuta dal Brasile.

Ma, per loro, è stata un’immane totentanz, una carneficina che vale quasi il doppio dei morti italiani nella Prima Guerra Mondiale.

La bambina va avanti, tra speranze, paure, contrasti, simile a molti bambini in guerra che, per resistere, guardano molto spesso da un’altra parte, enfatizzano gli emblemi scoloriti delle normalità per non lasciarsi prendere interamente da quelli, coloritissimi dell’anormalità bellica. Ci sono ospedali ancora sospesi tra Kafka e Gogol, ci sono i mutilati che possono essere forse proposti solo così, come tragiche parvenze fumettistiche rese con la terrifica capacità di sintesi che li trasforma tutti in emblemi. Marji capisce davvero che guerra e integralismo possono procedere uniti, Marji capisce tutto, come accade ai bambini in guerra, anche se questa è proprio una strana guerra, dove si usano già gli Scud, dove si usa ancora la frusta contro chi pretende perfino di sopravvivere, di far festa, di ballare.

Tra guerra e integralismo c’è una maniacale alleanza, qui la resistenza deve fondersi su nuove strategie, nuove alleanze, nuovi esiti. Il trafugamento di un poster degli Iron Maiden è complesso come un’azione del maquis, perché è lotta contro il nero tanatologico di chi uccide lo spirito, la voglia di vivere, l’ansia si esistere, la speranza. I maschietti sono già pronti per il fronte a tredici anni, difficile definire cosa sia infanzia, cosa sia adolescenza, con questi numeri, con queste visioni.

Indispensabile è notare come il segno, essenziale e drammatico, i tanti neri, per le cantine e il coprifuoco, e il linguaggio dei comics, assegnino a Persepolis una sua assoluta specificità. Si può azzardare una considerazione: questo orrore intriso di ridicole nequizie proprie di ogni integralismo sanguinario poteva essere davvero raccontato solo così. Di Persepolis allora bisogna dire che mette davvero alla prova il linguaggio dei comics e da esso spreme risorse che sembrava di non conoscere. Questa Téhéran così nera, questo peregrinare di poveri superstiti che sentono uno Scud su un altro isolato, questa alterità pazza presentata come legittima quotidianità, ovvero le radici profonde di questo inedito orrore nella storia sempiterna degli orrori, forse si possono rendere solo così. Qui, del resto, vengono in mente i disegni di Bacon per i rifugiati nella metropolitana di Londra, mentre gli aerei di Göring bombardavano l’Inghilterra.


4. E allora ecco l’Austria, ecco l’Altrove benefico, ecco l’Austria Felix dove si studia, ci si forma, si cresce. E Marji cresce infatti in molti modi, prima di tutto in statura, vertiginosamente, e poi nella vertiginosa consapevolezza che ogni esotismo è folle, bugiardo, assassino. Questa Austria ha per presidente un sorridente ex nazista, non si sa fino a che punto pentito. È un’Austria tanto razzista da non riuscire neppure a capire di esserlo, è un’Austria dove Marji può rinnovare il suo rapporto tra Kafka e Gogol, con un fervore ancora più motivato.

È un’Austria di mutande, di anticoncezionali, di escrementi canini, di cibo che aspira a definirsi cibo, però mentendo, di significativi orinatoi, di droghe varie, di affittacamere da lager, di signori perduti nella metropoli, di scuole demenziali. Non c’è Sissi, non è blu il Danubio, non c’è il concerto di Capodanno, non si balla il valzer: è un bell’universo concentrazionario dove i coetanei di Marji cercano veramente sé stessi, magari andando perfino in Tirolo a cercare un’alternativa su cui avrebbe potuto felicemente esprimersi Cesare Lombroso.

Si torna a casa. Tutto acquista più precisi contorni. A modo suo è stato un Gran Tour, diverso negli itinerari, ma capace di influire sullo sguardo e sulla percezione dell’Altrove.


5. Di Persepolis è inevitabile dire che si tratta di una “educazione sentimentale”, nel senso più pieno e più flaubertiano.

E poi è anche una bildung, ovviamente.

Persepolis rende un grande omaggio al fumetto e alla sua storia, perché, oggi, chi racconta una “educazione sentimentale” cade spesso nelle trappole di un intimismo memorialistico che fa rimpiangere le fiction di questo o quel canale, carabinieri compresi.

Ma quando il fumetto ha questa sorgiva forza dolente, queste variazioni grafiche dell’abiezione alla tenerezza, queste espressionistiche deformazioni che però non limitano gli struggimenti di una tenerezza vera, allora può ben guardare a Flaubert, al grande Flaubert.



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