Perchè leggere Joe Sacco di Marco Pellitteri


L'autore su cui gentilmente sono stato invitato a scrivere, story-teller e reporter nello stesso tempo, è una figura singolare del fumetto (e, direi, del giornalismo) principalmente perché descrive e interpreta delicati fatti politici, pur se con forme e linguaggi insoliti. 

Nell'attuale situazione internazionale, grottesca e tragica allo stesso tempo, non posso ignorare il dato nudo e crudo, la realtà di una tensione politica impossibile da scindere dall'analisi più stretta dell'opera del singolare narratore maltese-americano. Proverò dunque a procedere in maniera differenziata, cercando di individuare vari aspetti dell'identità artistica e professionale di Joe Sacco.

 

Punto numero 1. Quali effetti ha Joe Sacco sui lettori di fumetti? 

Va da sé che quando scrivo "lettori" cerco di distinguere coloro che leggono opere a fumetti come Palestina da coloro che si limitano a Valentina di Guido Crepax o Dylan Dog di Tiziano Sclavi (sentendosi peraltro grandi amatori di comics); e inoltre, specialmente data l'attuale situazione di guerra, mi tocca distinguere fra i lettori statunitensi e quelli italiani, come minimo.

Credo ad ogni modo che l'impatto che l'opera di Joe Sacco può provocare sui lettori, in generale, sia duplice: uno determinato dalla formula grafica, elegante e cruda nello stesso tempo; l'altro determinato dai contenuti veri e propri, che possono piacere o non piacere ma che ci mettono in contatto con un tipo di narrazione assolutamente innovativo, con un'operazione culturale di tutto rispetto. Ci torneremo; inizialmente mi pare più interessante far notare, repetita iuvant, che l'accoglienza ideologica riservata a fumetti come il citato Palestina o come il più recente Safe Area Gorazde cambi a seconda della nazionalità del lettore, e il caso più importante è proprio quello del lettore statunitense. 

Non posso né voglio celare la mia convinta avversione per la politica estera e per l'ideologia conquistatrice e irresponsabilmente distruttrice degli USA, per quanto apprezzi, naturalmente, molteplici manifestazioni della civiltà e cultura a stelle e strisce. Tuttavia ho riscontrato come anche negli Stati Uniti una più alta consapevolezza culturale si accompagni spesso a idee vicine a quelle dei propri "simili" del Vecchio continente; una maggiore qualità e quantità di conoscenze accomuna in genere le opinioni politiche degli statunitensi e degli europei, regolarmente tanto più sinistrorse e al contempo moderate quanto maggiore è il retroterra culturale (strano ma vero). Dunque i lettori nord-americani che scelgano deliberatamente di leggere opere mature come quelle di Sacco, o magari di Spiegelman, o di Zograf, già per il fatto in sé meritano a mio parere un plauso, perché dimostrano di non essere (troppo) asserviti e manipolati dai media di casa loro, e di voler estendere le loro conoscenze al fine di far maturare le proprie idee su temi di indubbia importanza politica. Quanto al lettore italiano, il problema in pratica non si pone, dal momento che Sacco qui da noi è conosciuto solo da uno zoccolo duro di appassionati e di operatori di settore. E uno dei motivi per i quali è così poco noto è perché i lettori italiani sono pochi, e questi pochi lettori (sia di fumetti che di altro) sono in media ancor più imbelli di quelli statunitensi nei confronti dell'opera plagiatrice dei media. È proprio per questo motivo che un tipo di giornalismo a fumetti come quello di Sacco andrebbe divulgato direttamente sui quotidiani e sui settimanali ad alta tiratura: la veste in volume o in comic-book è, almeno in Italia, un buco nell'acqua, è ghettizzante e "isolazionista", e soprattutto ritengo sia del tutto impropria da un punto di vista editoriale. Naturalmente ciò non toglie che sia d'obbligo un grato plauso all'editore italiano di Palestina, la Phoenix di Daniele Brolli, perché in sua assenza difficilmente avremmo letto Sacco nella nostra lingua, figurarsi poi su testate come "la Repubblica" o "L'Espresso", o "Panorama", fra le realtà editoriali italiane in assoluto più viscidamente asservite ai poteri politici.

Ad ogni modo, l'effetto principale che Joe Sacco ha sui lettori di fumetti (su quella parte di essi raggiunta dalle sue opere o che abbia la curiosità di scoprirle autonomamente) mi pare quello di riuscire a provocare una propensione alla riflessione ponderata su temi solitamente o evitati dalla cosiddetta agenda dei media, o palesemente contraffatti nel loro sviluppo storico, anno dopo anno, dall'informazione generalista, la stessa che attualmente - su telegiornali e quotidiani - sta "costruendo" per le masse un nemico islamico che non esiste, al fine di giustificare moralmente le decisioni guerrafondaie e petrolio-centriche di un Occidente davvero incommentabile. A latere, dato credo non irrisorio, Joe Sacco ha un effetto positivo su Joe Sacco medesimo: basta leggere Palestina (l'unica sua opera pubblicata in italiano) per notare l'incedere graduale e metamorfico delle opinioni dell'autore sulla questione palestinese, opinioni che per l'appunto cambiano - suppongo insieme a quelle del lettore - man mano che vanno avanti la sua peregrinazione e il suo resoconto diaristico e parziale eppure adeguatamente giornalistico. L'importanza di Palestina è grande perché Sacco, formatosi in gran parte in America, muta progressivamente opinione rendendosi conto in prima persona di fatti palesi a chiunque abbia mai impugnato i documenti giornalistici relativi alla "questione palestinese", una realtà negli USA non solo bistrattata ma anche fortemente falsata a favore di Israele - e non c'è bisogno di sottolineare che negli Stati Uniti gran parte del potere politico ed economico sia di matrice ebraica.

Ci sarebbe anche da evidenziare, a questo proposito, un vizio congenito alla cultura statunitense, di cui anche Sacco purtroppo mi pare vittima, senza che però questo tolga forza alle sue opere: talvolta Sacco mi pare convinto di aver fatto delle scoperte sensazionali sull'Intifada e sulla Palestina, o sulle guerre nei Balcani (in Safe Area Gorazde), e se fosse vero il mio sospetto, questo ci farebbe capire quale sia in generale l'enorme presunzione dei cittadini americani, dovuta in buona parte al loro isolazionismo. Per fare un esempio, restando nel campo dei fumetti, Scott McCloud nel suo celebre saggio Understanding Comics è intimamente convinto anche lui, per quasi tutto il suo testo, di compiere una svolta epocale nella divulgazione e nella ricerca sul fumetto, ma molte delle sue "scoperte" sono vecchie di più di trent'anni, ed erano già state fatte in Europa da autori come Gubern, o Eco, o Fresnault-Deruelle. Del resto, basta controllare la Bibliografia di Understanding Comics per verificare l'ignoranza galoppante di McCloud. 

Non un saggio europeo! 

Torno su Sacco, e mi scuso per la digressione: ribadisco che se un'opera a fumetti riesce ad aprire gli occhi, a invitare a una migliore conoscenza, di sicuro il suo effetto è non solo positivo, ma soprattutto utilizza al meglio le tanto decantate, ma quasi mai davvero sfruttate, potenzialità del medium. Isolazionismo culturale o meno.


Punto numero 2. Cos'è primariamente Joe Sacco come "figura professionale"?

Semplice quisquilia o dilemma profondo? Già, perché a monte della domanda sulla figura professionale di Sacco ve n'è un'altra a mio parere ben più cruciale: è possibile, è lecito, è utile ed è efficace un giornalismo a fumetti? Ci torneremo. Prima parliamo di Sacco.

Gli assi su cui si muove l'autore maltese, ovviamente, sono il reportage e il fumetto. Questa potrebbe sembrare una differenza impropria da proporre: infatti, a rigore e secondo una divisione classica (e comunque non immutabile), il reportage appartiene a una professione - il giornalismo - che si dichiara votata all'informazione e alla descrizione, tanto che i supporti non testuali al giornalismo sono storicamente la fotografia e l'audiovisivo. Il fumetto invece è tradizionalmente votato alla narrazione romanzesca o romanzata; l'unico caso universalmente riconosciuto di valenza documentaria (che, coincidenza, è anche un grande esempio di arte grafica e narrativa) è Maus del citato Spiegelman, che fino a poco tempo fa è stato considerato da buona parte della cultura mainstream una sorta di mosca bianca della letteratura contemporanea, quasi come se il fatto di essere stato deliberatamente creato sotto forma di fumetto sia stato un fatto incidentale, una specie di stravaganza del suo eccentrico autore. Maus ad ogni modo non può essere messo sullo stesso piano dei lavori di Sacco principalmente perché la sua formula narrativa è la biografia storica (e non il resoconto giornalistico in prima persona), e secondariamente perché il primo riporta fatti del passato, mentre il secondo si confronta con eventi di enorme attualità e in progress. Per non parlare delle differenze di stile, d'intento e di qualità finale.

Torniamo a bomba sulle differenze tra giornalismo e fumetto e fra vari formati comunicativi: tralasciando per comodità il fatto che sia la fotografia sia l'audiovisivo possano con facilità venire artefatti e perdere quell'aura di "realismo" che pubblici ingenui ancora attribuiscono loro, bisogna rilevare una contrapposizione fra i media fotografici, i quali secondo un comune modo di sentire "riporterebbero" i fatti, e i media grafici (come la classica illustrazione giornalistica dal sapore rétro), che per loro natura "interpretano". Dunque Joe Sacco, che nei suoi fumetti narra in prima persona i suoi viaggi investigativi e spesso etnografici all'interno di realtà culturali di grande attualità, cos'è? Un fumettista o un giornalista? Ma poi, ha davvero senso questo aut-aut di campo?

Forse sì e forse no. Esso ha senso se pensiamo che in effetti un giornalismo di tal fatta è più che mai destinato allo scetticismo del grande pubblico: a mio avviso le vaste platee difficilmente, almeno per ora, possono attuare quel passaggio intellettuale in grado di far loro comprendere che un giornalismo a fumetti di per sé non è meno affidabile di un giornalismo scritto o audiovisuale, i quali hanno analoghe possibilità di essere veritieri e documentaristici quanto di rivelarsi inaffidabili e romanzeschi. Il quesito non ha più senso, invece, se pensiamo che il fumetto alla base è un linguaggio, una forma - non certo un genere o uno stile - e dunque può farsi mezzo (medium) di qualsiasi tipo di contenuto e di qualsiasi formato comunicativo, che esso si trovi nell'ambito della narrazione fantastica o in quello della testimonianza di fatti realmente accaduti.

Per tornare allora alla domanda, credo che Joe Sacco sia un giornalista - del resto la sua laurea lo attesta formalmente - e solo "incidentalmente" un fumettista. L'accento infatti, nel suo caso, non va posto semplicemente sulla forma che egli utilizza per comunicare bensì, più complessivamente, sugli scopi e i contenuti della comunicazione. Joe Sacco è diverso dai fumettisti "classici" proprio perché, in maniera pressoché inedita, si serve di una formula grafica per parlarci della cruda realtà, e lo fa non da narratore onnisciente - cosa che lo farebbe ricadere grottescamente all'interno della struttura romanzesca - bensì da testimone. Infatti Sacco non racconta. Sacco piuttosto riferisce e riflette, anche se da un punto di vista del tutto soggettivo, e proprio per questo autenticamente giornalistico. E questo fa di lui, definitivamente, un reporter.

 

Punto numero 3. È lecito il suo mix di giornalismo e fumetto?

Da questa domanda deriverebbero direttamente due altri punti: se Joe Sacco sia un buon narratore e se sia un buon giornalista. Li accorpo a questo paragrafo per economia.

 In generale, cioè prescindendo da Joe Sacco, credo che l'utilizzo dei linguaggi fumettistici nel giornalismo non debba essere osteggiato, allo stesso modo in cui nessuno ha mai osteggiato gli illustratori che, in mancanza della possibilità di portare macchine fotografiche in un tribunale, abbiano fatto del giornalismo disegnando le scene salienti delle sentenze, riportando da testimoni oculari la loro visione dei fatti. Certo, la differenza c'è, ed è su due livelli anche stavolta: da un lato lo stile, dall'altro l'intento. Sullo stile c'è poco da dire: la figuratività di Sacco non è certo referenziale come quella di un illustratore del "Washington Post" o leggera e conciliativa come quella di un Walter Molino o di un Fernando Carcupino, essa è invece il frutto di una profonda ricerca artistica (in buona parte indipendente dalla porzione più puramente giornalistica del suo lavoro) e di un preciso atteggiamento culturale verso la notizia. L'intento è dunque ben altro che non la testimonianza asfittica di un fatto, o l'aneddoto di costume: Sacco desidera non solo dire al lettore qualcosa in più, ma gli dice con inequivocabilità che glielo sta dicendo, quel qualcosa in più. Un messaggio, in particolare, emerge a caratteri cubitali dai tratteggi precisi e carnosi delle sue tavole, dall'uso eisneriano delle didascalie svolazzanti, dalle inquadrature quasi crumbiane: "RIFLETTI! INFORMATI! PARLANE CON ALTRI!". Bisognerebbe piuttosto chiedersi se in generale sia lecito non tanto un mix fra giornalismo e fumetto (la mia risposta è naturalmente sì), ma fra un giornalismo asettico e referenziale e un giornalismo d'opinione. Il vecchio adagio giornalistico "la notizia è sacra, il commento è libero", a mio parere saggio e valido ancor oggi, parla però molto chiaro, sottintendendo un'altra regola fondamentale della professione oggi praticamente dimenticata, in particolare nel giornalismo politico italiano: i fatti separati dai commenti. Ora, il giornalismo di Sacco è una formula peculiare di giornalismo d'opinione. Di buon giornalismo d'opinione, intendiamoci, tuttavia per Palestina o per Safe Area Gorazde il principio della separazione tra fatti e opinioni sui medesimi viene scavalcato a favore di un registro sì diaristico, sì "soggettivamente oggettivo" à la Montanelli (basti ricordare l'appassionata cronaca sulla tragedia del Vajont realizzata a suo tempo dal decano del giornalismo italiano), sì privo di messaggi subliminali al lettore a favore di un'idea o di un'altra; e tuttavia il pubblico, nonostante i lodevoli sforzi documentaristici di Sacco, non sempre ha la possibilità di carpire dalla lettura dell'opera-reportage la situazione complessiva né soprattutto di individuare dove finisce il riferimento di un fatto e comincia - sempre poi se c'è - l'interpretazione del fatto stesso da parte dell'autore. La confusione del lettore può scaturire eventualmente dagli elementi segnalati sopra: lo stile e l'intento. Lo stile grafico è infatti una forte connotazione d'opinione, esso è di per sé un messaggio. Dunque è vero che "il medium è il messaggio"? Parrebbe di sì, perché se è lecito pensare a una versione alternativa di Palestina, realizzata ad esempio come la disegnerebbe oggi un autore di supereroi Image, è ancor più lecito inferire che l'intento e l'atteggiamento sottesi sarebbero in quel caso nettamente diversi. Non oso dire in che senso, ma comunque diversi. Quanto all'intento, torniamo a quanto già detto: fortunatamente Sacco è un uomo responsabile, e si limita a presentare fatti con l'intenzione di stimolare la riflessione. La forza "eversiva" dei suoi lavori scaturisce più che altro dal fatto che egli ci presenta situazioni ed elementi assolutamente nascosti dall'informazione ufficiale, ci mostra che le cose non sono mai come sembrano. Non è poco.

 

Joe Sacco dunque mi pare un bravissimo narratore, e dei fatti di cui è testimone, e delle garbate interpretazioni - sia esplicite sia implicite, come risulta evidente dalle sue opere - che di tali fatti ha formulato. E sappiamo tutti quanto oggi siano indispensabili autori intelligenti e colti che divulghino con abilità le loro opinioni, i loro commenti, o anche semplicemente il loro invito alla riflessione su fatti sconosciuti o falsati dall'informazione globalizzata. Se Joe Sacco sia un buon giornalista è un parere che lascio tuttavia al lettore, sulla base delle sue convinzioni e della sua idea di "giornalismo". Certo è che il portato innovativo dell'opera di questo autore-cronista è notevole, e apre una nuova via, che potremmo forse definire rivoluzionaria, al giornalismo tout court.



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