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14 aprile - 6 maggio 2007

Urban Center, Ravenna


A cavallo della tigre | Marina Sangiorgi


Romea Romea

L’anno che arrivammo al villaggio Anic le due bambine erano piccole. Linda aveva tre anni e Silvia otto mesi. Mi alzavo alle sette. Lasciavo Silvia alla vicina e accompagnavo Linda all’asilo in via Chiavica Romea. Facevo la spesa all’alimentari, al forno, tornavo e mi riprendevo Silvia. Poi all’una Linda tornava con la Carla Brusa, e tutto il pomeriggio badavo alle figlie.
Dino lo vedevo, se lo vedevo, la sera a cena, che inghiottiva un po’ di minestra e usciva di nuovo, alle riunioni. Faceva il coro, la politica, la parrocchia. Io quell’uomo l’ho conosciuto quando si è pensionato.
Il villaggio era un posto isolato, laggiù nella pineta, ma non mi lamento. Sono capitata in una buona scala.
La vicina era marchigiana: la mattina, appena sentivo i suoi ragazzetti correre fuori a prendere l’autobus, uscivo con Silvia in braccio. Lei ancora sulla porta mi diceva: - Signò me la dia qua, la piccolina - e io: - Grazie, grazie -, mentre già scendevo le scale con Linda per mano. Alla fine della strada la Carla mi consegnava i gemelli, pettinati con la riga da una parte, e via di buon passo.
La mia amica Betta Folli invece era finita in una scala cattiva. Piena di attriti e litigi e dispetti. Suo marito era impiegato all’ufficio personale e gli scioperi non li faceva. Allora i vicini, di notte, mettevano il pane secco davanti alla loro porta, e tutte le mattine che Umberto usciva ficcava il tozzo in casa con un calcio.
- Giovanna, non è giusto, che mi tocca sopportare -
Betta con Umberto sorrideva, con gli altri incassava, con me si sfogava. Che i vicini non la salutavano, e avevano detto ai figli di non giocare con Giorgio. Allora Giorgio veniva a casa mia, con la cartella, faceva i compiti in cucina, i disegni per Linda, e giocava da solo con le costruzioni sul tappeto.
Dino con Umberto ci discuteva: - Sei sottomesso all’azienda, bisogna combattere insieme -; e Betta con me sbottava: - Sì, così perde il posto! -
Il fatto è che lo stipendio degli impiegati era buono. Degli impiegati era buono e degli operai no. Tutto qua. Ecco perché scioperavano gli operai e non gli impiegati. Ci vorrà la laurea per capirlo!
Comunque Umberto e Betta erano amici nostri. Con Betta ero amica dai tempi di Forlì, dell’avviamento, dei primi lavori. A diciotto anni andammo in pellegrinaggio a Lourdes. E davanti alla grotta, in quella pace strana e dolce, tutte e due avevamo pregato in ginocchio la Madonna che ci aiutasse a trovare un buon marito.
- Mamma, come fai a credere in Dio? - mi chiede Silvia che fuma in terrazza quando mi porta, ancora, il bucato da stirare.
- Dio mi ha protetto, mi ha esaudito in tante cose - rispondo senza guardarla, sorridendo alla piega ben fatta delle maniche.
Con Betta la domenica giocavamo a carte in parrocchia. Eravamo imbattibili a maraffone. Dino faceva giocare a calcio i maschi, le ragazzine badavano ai piccoli. La chiesa era un fabbricato. C’era lo spaccio e l’autobus, che faceva tre corse al giorno.
A me sarebbe piaciuto andare al cinema, andare in gita, ma la macchina Dino potè comprarsela soltanto nel ’69.
La sera cucivo e andavo a letto presto. Il centro di Ravenna per dieci anni non l’ho visto.
- Giovanna contentati, che l’affitto è basso - diceva Dino. Per carità, che non era facile ottenere la casa e noi ci riuscimmo al secondo tentativo, con l’aumento di punteggio e di figli a carico.
Da ragazza attraversavo la piazza in bicicletta e sollevavo gli occhi a guardare il campanile altissimo di san Mercuriale.
Ero catechista dalle suore con la Betta, e quando mi disse che si era fidanzata mi venne il magone. Ma poi un pomeriggio quel Dino Piombini che cantava Appassiuneda a tutte le feste mi aspettò al portone.
- Signorina, posso accompagnarla a casa? - mi chiese tutto compunto, ma senza timidezza. Io arrossii e cominciò tutto.
Ci pensavo quando scarpinavo da via Chiavica verso casa e la puzza della fabbrica toglieva il fiato, le nuvole tossiche riempivano il cielo, io con la bimba in braccio guardavo dalla finestra le ciminiere e i fumi, e solo a saperlo s’immaginava dietro il muro giallo dei veleni la pineta rovinata, e il mare.

Baraccati

Mi chiamo Dino Piombini e arrivai a Ravenna nel 1959. Il dottor Rondinelli, ingegnere all’Agip, di Forlì come me, mi trovò il posto all’Anic.
Entrai come operaio al reparto polifosfati, in catena di montaggio.
I primi mesi venivo in treno. Alle cinque tutti i pomeriggi padre Cimenti, gesuita, diceva messa. Io andavo sempre, servivo anche all’altare, mi confessavo. Così padre Cimenti mi conosceva, e una sera, che mi vide distrutto, stanco morto, mi disse: - Fermati da me, che ho un letto - .
Era il cappellano dell’azienda e aveva una casetta dentro i cancelli. In una camera dormivano due ragazzi friulani. Il padre mi fece vedere un’altra stanzetta con una brandina. - Puoi dormire qui - disse. Mi ci buttai senza spogliarmi. La mattina alle sei mi svegliò la sirena. Mi voltai e vidi per terra padre Cimenti che dormiva su una coperta. Mi aveva ceduto il suo letto. Era un grande uomo. Avvocato, in corte di cassazione, un giorno mollò tutto e si fece gesuita. Lo misero a studiare il russo per paracadutarlo in Unione Sovietica. Ma poi si ammalò e lo mandarono all’Anic. Quando mi lamentavo del lavoro e della miseria mi guardava in faccia e diceva: - Dino, recita il Magnificat. E’ tutto lì -.
“Ha rovesciato i potenti dai troni”: eh sì, magari.
I potenti sono ancora qui che comandano, gli stessi da cinquant’anni, dai tempi di Zaccagnini, e non è cambiato niente. Gli stessi appalti truccati, le corruzioni, le porcherie. E io in tutto questo can can non mi sono mai tirato indietro. Tutto quel che ho potuto fare per gli operai e gli amici l’ho fatto. Ho fatto assumere trenta ragazzi. Trenta bravi cattolici (solo così li volevano, anche se poi in due mesi diventavano comunisti) di Forlì e Cesena. Il direttore del personale, il dottor Mingozzi, mi aveva detto: - Prendi questo foglietto verde e dallo ai tuoi. Chi si presenta con questo lo assumiamo -. Così ho dato lavoro a giovani disoccupati, che hanno aiutato i genitori, messo su famiglia.
E la sera si stava in baracca: un pacchetto di nazionali, un mazzo di carte, e a letto alle dieci. Eh no. Giravo per Ravenna, che era buia come l’inferno perché il sindaco repubblicano, Serpieri, era tirchio e risparmiava sui lampioni. Ma una volta incontrai don Emilio Vacca, di Forlì pure lui, e mi disse: - Dino, che ci fai qua? -
- Lavoro all’Anic. E lei? -
- Mi han dato un oratorio, ma non ci viene un cane -
Allora gli dico: - I baraccati dell’Anic non hanno un posto dove andare -
- Falli venire -
Con il mio amico impiegato Garavani e Luigi Pillo, appassionato di pallacanestro, cominciammo ad andare all’oratorio: ping pong, vari sport, tornei di maraffa. E poi incontri culturali, la biblioteca circolante, il coro. Mettemmo su un coro di canti di montagna che ci chiamavano a fare i concerti.
A dirigerlo venne don Lupini, il parroco del Torrione, che era bravissimo. Un vocione da baritono che spaccava i vetri. Al funerale di Siroli cantammo Dio del cielo e la voce ci tremava e gli occhi luccicavano, perché era un bravo ragazzo, e tutti gli volevano bene.
Ma questo successe dopo, quando capimmo che il cloruro di vinile ci avvelenava. E a Siroli venne un tumore. Lo dissi all’ingegnere e lo mandò a Pavia, in un centro specializzato. Siroli campò ancora qualche anno, poi morì. Allora noi delle Acli cominciammo a fare le analisi. Dirigeva tutta la faccenda il dottor Zangoli, il capo di oncologia all’ospedale. E le analisi ci davano ragione: quella roba era pericolosa, cancerogena, e di sistemi di sicurezza, ai tempi, neanche l’ombra. Ma un giorno lo chiamò il dottor Preziosi, il direttore dell’ospedale. Era del Pci. Gli disse: - Lei sta commettendo un illecito e la devo licenziare. A meno che non passi tutto il lavoro che avete fatto finora a noi - . I comunisti minacciarono anche il dottor Archiapolis, un profugo scappato dai colonnelli, che senza la protezione del Pci se ne tornava in Grecia.
E così finì tutta la storia, perché non potevamo certo chiedere aiuto al vescovo. Quando il vescovo, quello che ora è cardinale, ci fece chiamare, io glielo dissi chiaro: - Lei è il padre e noi i figli. Ma per dirci qualcosa prima deve venire in fabbrica con noi -. Lui si alzò e se ne andò. Pensava che eravamo comunisti, invece i comunisti erano gli altri, quelli che ci avevano preso a bastonate.
Il cardinale ci tolse anche la sede, che era una cantinaccia in via Cavour, dove si facevano braciolate, (venivano operai, medici, professori, con le mogli e i figli), e l’ha data ai drogati.
Con l’altro vescovo, col vescovo di prima, Belardelli, fu tutta un’altra storia. Era un bel tipo. Cavalcava la tigre insieme a noi. Mi telefonava in fabbrica: - Dino come va? -, per sostenermi. Mi fu accanto nello sciopero dei nove giorni. Veniva a dire messa fuori dai cancelli. Mi disse: - Con Mattei ci penso io -. Infatti chiamò Montini, il vescovo di Milano che poi diventò Paolo VI. Montini richiamò Mattei, che era all’estero. Mattei tornò a Milano, firmò la vertenza, e poi a Ravenna, in duomo, era in prima fila alla messa del vescovo, e gli regalò pure un quadro con la Madonna in trono.
Davvero ringrazio Dio che finì tutto bene, perchè quella faccenda a cominciarla fui io. Non ne potevo più. Prendevo trentaquattomila lire al mese e ne pagavo ventitremila di affitto. Se riuscivo a mangiare era per i miei suoceri che la domenica arrivavano con le ceste di roba e le lasagne sotto il tovagliolo. Lo dissi agli altri: - Facciamo uno sciopero generale -.
La Cisl che chiede lo sciopero generale? Non ci credevano, ma ci stettero: quello della Cgil, Cartoni, un osso duro, i repubblicani e Tosi della Uil, che era socialista però onesto, un brav’uomo.
E partimmo. Ci sostennero anche gli impiegati, e questo non s’era mai visto. Li guidava Garavani, che infatti l’ha pagata. Non l’hanno licenziato, se n’è andato lui, ma fu costretto. E pure Brioschi, che era di Faenza, tornò a Faenza. E’ diventato dirigente e si è fatto la villa sui colli, ma dall’Anic l’hanno cacciato.
Fatto sta che misi su un putiferio, e l’ingegnere, il direttore generale, mi fece chiamare dal segretario: - Domani alle undici in stazione a Bologna -.
Ci andai.
Venne a prendermi con la macchina.
- Siediti e non parliamo, che non mi fido neppure dell’autista -
Andammo a San Luca e scendemmo a camminare sulla ghiaia. Mi offrì una malboro e si accese il sigaro.
- Cos’è che volete? Vi abbiamo fatto il villaggio Anic e le case a Borca di Cadore per le vacanze -
- Vogliamo mangiare, tutto qua - risposi.
Lui mi guardò e disse: - Va bene -.
Ottenemmo più di quel che avevamo chiesto. Lo stipendio aumentò di un terzo. Fu una bella vittoria, e pure padre Cimenti era contento.
- Hai visto che pregare conta? - mi disse.
Veramente io avevo scioperato, ma sorrisi.
Lui però capì e disse: - A pregare ci ho pensato io, non preoccuparti -.
In quei giorni si stava a chiacchierare dopo mensa con Anchise Prati, appena tornato da un corso di politica in Unione Sovietica.
Anchise aveva cominciato in parrocchia. Voleva fare il ciclista. Poi si era iscritto al partito repubblicano. Entrò all’Anic. (Anche i repubblicani piazzavano i loro, è questa la democrazia). Ma Anchise era ambizioso. Per questo si fece comunista. Aveva capito come girava il vento. Chi comandava veramente a Ravenna. Il Pri, la Dc? Ma per favore.
E padre Cimenti lo interrogava: - E pensare che dovevo andarci io in Russia! Come si sta laggiù? Racconta, dimmi un po’ -
Ma Anchise fumava e taceva, socchiudeva gli occhi.
- Hanno bisogno di Bibbie, di preti, di Cristo. Come tutti noi, anche qua, del resto - diceva padre Cimenti.
Anchise sorrideva, furbo come un gatto. E’ partito come me dalla catena di montaggio, dalla baracca, e ha fatto carriera voltando gabbana. Però cercava sempre padre Cimenti in quel periodo, tornato da Mosca, e, anche se stava zitto, lo guardava.
- Non si può prendere in giro per sempre nostro Signore -, sbottò un giorno padre Cimenti, che si era stufato del suo silenzio. Allora Anchise schiacciò la cicca sotto la scarpa, si voltò, e da quel giorno con noi non parlò più.


Marina Sangiorgi (vincitrice sezione Narrativa)

nata nel 1972 a Faenza - marinasangiorgi@libero.it
2006 Margherite in fondo al mare, in Il mio mare, emozioni e racconti di attività subacquee, ed. La Mandragora (Imola).
Mundum replè, in La luna di traverso, Anno VI, num. 14, racconto pubblicato nell’ambito del concorso Acqua.
Come terra deserta e La maturità in Indiscipline, sette storie tra i banchi, ed. Il lavoro editoriale (Ancona).
I ladri della Standa e Mundum replè in I lunatici 15 nuovi scrittori italiani, Monte Università Parma editore.
Due abissi in Graphie, Anno VIII, num. 3.
2005 Il ’68 di mia suocera, in Fernandel, gennaio-marzo, num 1/2005.
2004 I ladri della Standa, in La luna di traverso, Anno IV, num. 8, giugno-agosto 2004, racconto pubblicato nell’ambito del “concorso Città che cambia”, Parma.
Patagonia , in Graphie, Anno VI, num. 3, dicembre 2004.
2002 Il senso del pudore, in clanDestino, Anno XV, num. 1, marzo 2002.
L’estate del ’62, in “I racconti della Garisenda”, Casa editrice Re Enzo, Bologna.
2000 Frammenti di un’autobiografia imperfetta, II premio di narrativa Graphie Ed. Il Vicolo, Cesena.
1999 Romanzo familiare, in Il sapore dei corpi, Premio Arturio Loria , ed. Diabasis, Reggio Emilia.
1998 1849, in Graphie, Anno I, num.1, dicembre 1998.